Giovedì 25 Aprile 2024

Lo Smart working in Capitanata: precarietà o flessibilità?

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Di recente, la società d’informatica Citrix, distributrice di applicazioni, dati e servizi, ha condotto in Italia su un campione di 600 lavoratori, un interessante indagine sullo “Smart working”: i lavoratori italiani sarebbero disposti a lavorare di più purché in modalità flessibile. La Legge di Stabilità 2016 (la finanziaria) sta tentando di regolamentare questa tipologia di lavoro. Benjamin Jolivet, country manager della Citrix, afferma che “Lo smart working è già una realtà e, come spesso accade, la legge interviene a regolare una situazione che di fatto esiste. Non si tratta soltanto di una questione logistica. Si fa strada un’idea di lavoro basata sulla responsabilità e sul raggiungimento degli obiettivi piuttosto che sul numero di ore e sulla presenza in ufficio”. Due terzi delle ore di lavoro sono trascorse lontane dall’ufficio, il 70% è disposto a lavorare anche 5 ore in più a settimana in cambio di maggiore flessibilità (il 52% del campione lavora già oltre l’orario d’ufficio almeno una volta al mese), il 64% è convinto di migliorare la produttività grazie al lavoro agile e solo il 33% è timoroso di perdere la dimensione sociale dell’ufficio.
In quali realtà del nostro paese è sviluppato lo “smart working”? Probabilmente in quelle informatiche, non certo nelle fabbriche (in quelle poche rimaste) in cui i lavoratori sono obbligati a seguire turni di lavoro estenuanti e debilitanti sia fisicamente che psicologicamente. In alcuni paesi europei, il “lavoro flessibile” come il “telelavoro” è una realtà consolidata da oltre un decennio. Perché in Italia stenta a decollare? Non è sicuramente un problema normativo, considerando il proliferare delle leggi che lo regolamentano. Allora è una questione di “forma mentis” degli imprenditori italiani che non hanno ben compreso la duplice utilità: una per l’azienda che avrebbe dei benefici economici, abbattendo i costi fissi di manutenzione, di fitto e quant’altro e la riduzione per es. della malattia o degli infortuni e l’altra per il lavoratore che riuscirebbe meglio a conciliare i carichi di lavoro con quelli familiari. Inoltre, applicare lo “smart working” nelle svariate realtà lavorative consentirebbe una maggiore tutela dei diritti dei lavoratori, recentemente, precarizzati con il Job Act (riforma del lavoro). L’idea che si fa strada con l’entrata in vigore del Job Act è quella di aver stabilizzato i contratti dei “parasubordinati”(co.co.co, a chiamata, intermittenti ed altro), facendo lievitare quelli a tempo indeterminato. Purtroppo la realtà del Sud e in particolare quella della Capitanata (Foggia) e della Basilicata (Melfi) è ben diversa. La Fiat, beneficiaria da lungo tempo di sostegni statali, sta precarizzando sempre più quei pochi neo-assunti con contratti che scadono anche settimanalmente e che vengono rinnovati, se va bene, la settimana successiva, altrimenti si configura, ineluttabilmente, il licenziamento. Come può un lavoratore pianificare il proprio futuro, la realizzazione di una casa e di una famiglia con contratti così aleatori e con l’assenza delle principali tutele del lavoro, temendo di esser colpito dalla mannaia del licenziamento? Dov’è lo Stato? Dove sono le Istituzioni deputate al controllo? Chi garantisce e tutela i diritti dei lavoratori?
I nostri nonni hanno combattuto duramente, rivendicando la dignità dei lavoratori ad un equo salario, orario di lavoro, riposi, carichi di lavoro, maternità ed altro. Oggi si spazzano, facilmente, con “utopiche” riforme i diritti sacrosanti dei lavoratori che andrebbero tutelati soprattutto in questa giungla di contratti di lavoro sempre più “precari” e poco “smart”.
Grazia Amoruso

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