Giovedì 25 Aprile 2024

A proposito di una polemichetta sui confini tra i Comuni di Manfredonia e Monte Sant’Angelo

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La cosa peggiore che si possa fare, nel tentativo di dare una interpretazione storica degli avvenimenti, è mescolare i dati con giudizi di altro tipo, magari per finalità polemiche tese a colpire persone a sé sgradite; perché in tal caso si smarrisce la dovuta serietà e la coerenza dei dati, imposti dalla storiografia, ch’è una vera e propria scienza, solo se trae la propria giustificazione dal rigore logico che si mette in campo. La capacità d’interpretazione storica cade sicuramente quando si affastellano insieme dati storici a giudizi politici, ancor peggio se si usa il pretesto della storia per elevare sprezzanti giudizi personali. È il caso dell’articolo di Tommaso Di Jasio il quale, nel tentativo di contrastare l’analisi di un pamphlet, scritto da mio padre più di trent’anni fa, circa i confini tra Monte Sant’Angelo e Manfredonia, per contrapporre i suoi maldestri giudizi all’analisi svolta da mio padre, mescola storia e giudizi politici, confondendo oltretutto luoghi, tempi e questioni e, visto che si trovava, ci mette pure una vecchia calunnia, ormai abbondantemente acclarata, per parlar male di mio padre e, nella sua voglia polemista, inserisce anche me, per non fare mancare nulla alla sua brodaglia di “storico” sopraffino. Il Di Jasio, nella sua battaglia proto-campanilistica, non evita neanche d’insultare l’intera popolazione sipontina, della quale tutto si può dire fuorché abbia mai manifestato in tutta la sua storia e nella quotidianità manie di grandezza, perché se così fosse certi regali fatti, negli anni, alla città di Monte sant’Angelo, che tutti noi stimiamo ed amiamo in quanto nostri vicini, come l’arretramento dei confini dal torrente Varcaro al torrente Pulsano, non sarebbero mai avvenuti.

In ogni caso, cercherò con la dovuta pazienza di usare i dati, quelli veri e senza giudizi su chicchessia, per smentire una vera e propria calunnia, messa a suo tempo in giro dagli amici dell’Enichem, quando mio padre nel ’76 chiese la delocalizzazione della fabbrica, la stessa richiesta fatta, fin dal 1966, dal Partito Comunista, senza risultato.

Innanzitutto, mi corre l’obbligo di chiarire il quadro storico. Al governo della città c’era allora una giunta di democristiani e socialisti, con sindaco il Prof. Antonio Valente. Il partito comunista era all’opposizione. Nel dicembre del 1966 il direttore dell’Eni, in una conferenza stampa, annunciava l’intenzione di dar vita a uno stabilimento per la produzione di ammoniaca e urea (ANIC, non EniChem, come dice Di Jasio), precisando ch’esso avrebbe dato 500 posti di lavoro. A questo annuncio, gran parte della stampa di allora, per convincere i cittadini della bontà dell’insediamento, si schierò a favore della fabbrica.

Quando si apprende che l’insediamento dell’impianto sarebbe avvenuto nella piana di Macchia, la popolazione di Manfredonia insorge, di conseguenza prendono una netta posizione contraria all’intento dell’Eni tutti i rappresentanti politici della città. Ma il sindaco di allora, spronato dall’on. democristiano Vincenzo Russo, funzionario dell’Eni, rilascia una pubblica dichiarazione per dirsi favorevole al progetto e trasmette, motu proprio, un telegramma al Presidente del Consiglio dei Ministri, per esprimere “l’ansia della cittadinanza per il lavoro” e chiedere “una sollecita conferma che il progetto sia presto realizzato”. Non solo. Mentre il Comune di Monte Sant’Angelo all’unanimità esprime parere favorevole a quella ubicazione, il Sindaco Valente si rifiuta di convocare il Consiglio Comunale di Manfredonia, conoscendo bene la sua posizione. Sicché il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, in assenza del parere del Comune più interessato, vista la sua vicinanza alla Piana di Macchia, il 15 maggio 1968, fa propria la scelta dell’Eni, circa l’ubicazione dell’impianto.

Poi, sotto la spinta dell’opinione pubblica, che teme “la sovrapposizione della scelta industriale a quella turistica e la distruzione di un capitale agricolo notevole”, il consiglio comunale viene finalmente convocato il 6 giugno 1968 e, a conclusione di una seduta burrascosa, con voto unanime si approva una mozione molto chiarificatrice e ferma, con cui si “chiede che lo stabilimento dell’Anic venga ubicato a debita distanza dal centro abitato, in una zona diversa da quella prescelta, considerato che tra Ovest e Sud-ovest della città esistono vastissimi territori idonei all’ubicazione dello stabilimento e del porto”. Purtroppo, il Sindaco ed altri amministratori vicini all’on. Russo, cambieranno ancora una volta posizione, tanto che, anche sotto la spinta di diverse lotte popolari, i suoi alleati socialisti toglieranno al sindaco la fiducia, determinando lo scioglimento del Consiglio Comunale.

La famosa frase. Si era in campagna elettorale per le politiche del ’68 e, sotto l’incalzare delle accuse rivolte al Partito Comunista, di temere la fabbrica perché “quando gli operai lavorano i comunisti perdono consenso”, mio padre disse in un comizio tenuto in Piazza Duomo (oggi Giovanni XXIII): “Noi abbiamo sempre reclamato che per la fabbrica devono essere trovate soluzioni che meglio corrispondono agli interessi della collettività. Ma il sito più idoneo non ce lo deve dire l’ENI, interessato innanzitutto a realizzare il massimo reddito aziendale. Esso deve invece scaturire da studi disinteressati, compiuti autonomamente, i quali devono dimostrare l’impossibilità tecnica ed economica di una diversa soluzione”. E poi, andando su di tono: “Se i tecnici di nostra fiducia diranno che la fabbrica può venire addirittura in questa piazza, la faremo fare in questa piazza! Ma non ce lo debbono certo dire i tecnici pagati dall’Eni”. Era, con ogni evidenza, un’affermazione per assurdo, poi strumentalizzata dagli amici degli inquinatori. Questo avvenne dopo lo scoppio della colonna di lavaggio dell’impianto Anic (1976), quando mio padre si dimise da Sindaco, per protestare contro la Federazione provinciale del suo partito, che non voleva la chiusura della fabbrica e la sua delocalizzazione. Un corrispondente locale, favorevole alla immediata riapertura della fabbrica, costruì una vera e propria macchina del fango, riportando sulla stampa una parte del testo di quel comizio, estrapolata da tutto il contesto e dalla posizione sempre sostenuta da mio padre e dal Partito Comunista di Manfredonia, che erano, con ogni evidenza, contrari all’insediamento della fabbrica nella piana di Macchia, puntando su una diversa allocazione. Ciò scrivo a tutela della verità, facilmente comprovabile se solo si ha la pazienza di leggere gli scritti, i verbali e le pubblicazioni già agli atti della biblioteca comunale e del Comune di Manfredonia.

Italo Magno

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Commenti

  • Egregio consigliere Magno, purtroppo durante i comizi, se ne dicono di fesserie, specialmente se fatti a braccio. Posso raccontarle cosa disse, tra le altre, suo padre durante un comizio elettorale: “….Amministriamo i più grandi comuni italiani…….. I comuni italiani sono indebitati fino al collo con svariati miliardi di lire di debiti…..” Questo la dice lunga, ma fa benissimo a difendere a spada tratta quello che è stato suo padre. Sicuramente lui, dal mondo dei più, ne e’ fiero. Saluti

    Pasquino 10/07/2018 22:53 Rispondi
  • Grazie per la precisione e la verità storica.

    Matteo Morlino 10/07/2018 12:19 Rispondi

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